È già una vergogna. Uno studio della UC Riverside di Los Angeles dimostra che “per ogni venti comandi che impartiamo a ChatGPT consumiamo mezzo litro d’acqua”. E qualche titolista da social network si affretta a denunciare. Mezzo litro d’acqua dolce, buona per irrigare i campi, per abbeverare il bestiame e, grazie a qualche semplice tecnologia, buona per noi umani, per dissetare i tanti che la sete, nel 2024, ancora la soffrono. Impossibile non indignarsi, lasciare un mi piace per ostentare l’indignazione e ricondividere perché, in fondo, noi sì che abbiamo l’anima da attivisti.
Un’interpretazione così semplice della realtà, così banalmente lineare, che ci basta per quel che è. Una nuova tecnologia violenta che schiaccia, senza scrupolo, la natura. Eppure basta fermarsi un secondo dal consumo compulsivo del prossimo contenuto social da divorare, ingurgitare e poi defecare nella sua integralità, per scoprire che l’intelligenza artificiale - quel mostro di ChatGPT - è solo una morigerata porzione di un problema di cui non solo non siamo consapevoli, ma ci badiamo bene dal desiderare di esserlo.
Giusto per metterla sullo stesso incontrovertibile piano della scienza, già qualche anno fa i ricercatori dell'Imperial College di Londra hanno pubblicato uno studio secondo il quale sarebbero coinvolti fino a 200 litri d'acqua per il download di un singolo gigabyte. Matematica fatta, 400 bottigliette da mezzo litro, pari a 8000 comandi impartiti a ChatGPT, corrispondo a un gigabyte, all’incirca quello che si consuma guardando una puntata di Mare Fuori in streaming su RaiPlay.
Ma qualcuno ha mai sentito un moto di coscienza per l’acqua consumata dal consumo di gigabyte? Un’attività ormai così naturale che nemmeno abbiamo il coraggio di mettere in dubbio. Praticamente qualsiasi azione digitale consuma gigabyte, scaricati da qualche server in giro per il mondo per colorare il led del nostro smartphone, per farci vedere un film sulla nostra smart Tv o per scaricare i documenti sul Pc con cui lavoriamo ogni giorno. Ciononostante il nemico oggi è l’intelligenza artificiale (IA), meglio se impersonificata con la pop ChatGPT.
Le ragioni dietro questa perversa gogna mediatica contro l’IA sono complesse. Senza dubbio è un gioco di forza, un conflitto a cui la maggioranza dei media tradizionali s’accoda volentieri per difendere i propri interessi e per illuderci che i nostri interessi corrispondano con i loro. Il progresso contro la conservazione, il rivoluzionario contro l’establishment. Peccato che questa volta l’annosa dinamica sia viziata dal fatto che vittime e carnefici hanno ormai la stessa faccia: le vittime, inconsapevoli, sono già viziate dal terrore che la comunicazione imperante ha innestato in loro e condividono, sui social e nell’anima, trascinati dall’inerzia del sistema. Dall’altra o, meglio, dall’alto, c’è chi è consapevole, si potrebbe dire doloso. Tra queste fila è importante difendere i propri interessi da un settore che minaccioso avanza a una velocità assurda.
Velocità conquistata dal progresso su cui il nostro intero capitalismo tecnologico si dovrebbe basare. Un’innovazione vertiginosa che sfrutta tutte le risorse disponibili per avere in cambio una tecnologia che ci permetta di stare comunque meglio, anche nella desertificazione, anche nell’innalzamento dei mari, anche con un tasso più alto di tumori. Perché è anche – e soprattutto - grazie all’intelligenza artificiale se i tumori si trovano prima, si combattono meglio e, alla fine, se l’aspettativa di vita continua a crescere, nonostante tutto.
Il bilancio, fino a ora, si può ancora considerare positivo: seppur le risorse naturali siano sotto una minaccia piuttosto evidente e le prospettive per loro non siano delle più floride, la gente vive più a lungo e spesso anche in condizioni migliori. Ma se siamo arrivati qui è stato grazie a una macchina che, inesorabile, ha spinto tutto oltre il limite. E forse, l’unico modo per rimanere in un equilibrio di crescente benessere, è non avere paura, combattendo prima di tutto chi, per difendere i propri interessi, ci vuole trattenere alle sue già obsolete meccaniche.