Immagina se da domani le principali città italiane come Roma, Firenze, Milano o Venezia perdessero, per qualche strano e assurdo motivo, tutto il loro appeal e da un giorno all’altro nessuno volesse più venirle a visitare, nessuno volesse più gestire i propri affari economici in questi luoghi. Non serve essere un grande economista per comprendere le ricadute di questa eventualità. Una delle tante sarebbe il crollo del costo degli affitti in questi centri. Molti potrebbero addirittura vivere in qualsiasi magnifica città d’arte a costo bassissimo, così come sarebbe molto più accessibile mandare i propri figli a studiare in prestigiose università che in queste città hanno la propria sede; pur senza sbilanciarmi sulle mie più intime ideologie politiche del cui io stesso sono ancora del tutto ignaro, non me la sento di auspicare che ciò accada. È chiaro che questo scenario significherebbe più povertà per tutti.
Mi accorgo da solo che questa provocazione è irrealistica ed estrema: da questo riadattamento della riflessione di Michele Boldrin nel suo podcast a proposito di studenti-affitti nasce il pezzo di oggi. Fin dai primi giorni ho seguito questa protesta in cui sono fortunatamente coinvolto in quanto fuori sede che si può permettere di vivere a Milano grazie ai sacrifici di chi lo mantiene. La mia posizione rispetto alle richieste degli studenti è sempre stata, cinicamente, piuttosto critica. Non tanto perché non creda nel diritto allo studio e nemmeno perché creda nella follia del pendolarismo che molti hanno cercato di normalizzare per non sentire il peso del rimpianto di quelle ore di cui vengono derubati ogni giorno da trent’anni: non condivido questa protesta perché i ragazzi propongono soluzioni ingenue e ancora una volta i politici “progressisti” non hanno quello che Boldrin chiama “coraggio politico” di portare avanti controproposte meno comode ma più valide.
Ho sentito parlare di sussidi per gli affitti e della costruzione di studentati: i primi sono un dolce palliativo per gli studenti e un buon modo di trasferire ancora più soldi dalle tasche dei contribuenti a quelle dell’élite, i secondi invece non sarebbero mai neanche lontanamente in grado di sopperire al numero di studenti che cercano alloggio vicino alle loro università (come spiega in maniera più esaustiva Boldrin).
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Detto questo, quella che io penso modestamente possa essere una strada preferibile per un’istruzione più democratica è quella della territorializzazione o, come mi piace chiamarlo, dell’approccio orizzontale. In realtà, questo approccio, prima che lo traslassi alla questione studenti-affitti, arriva da un discorso per certi versi simile, relativo ai sistemi sanitari e al loro collasso durante la pandemia. In breve, la sanità in pandemia, specialmente in alcune regioni, non è stata in grado di curare i suoi pazienti prima che si acutizzassero e avessero bisogno di un letto in terapia intensiva perché per molti anni ha investito nell’iperspecializzazione dei suoi centri, a discapito della rete che avrebbe potuto intercettarli in un luogo decentrato prima che avessero bisogno di un centro iperspecializzato, magari più comodo per il paziente, meno stressante per il sanitario e meno rischioso per la popolazione nel caso di una malattia infettiva.
Questo approccio, seppur non completamente sovrapponibile al caso degli affitti, in realtà è una buona metafora di quella che potrebbe essere una soluzione. Chiediamoci perché, se oggi l’università vuole essere per tutti, deve rimanere nei palazzi storici del centro, dove è stata costruita quando era frequentata da una ristrettissima cerchia di aristocratici che dimoravano nelle vicinanze? È un discorso che va contro i miei stessi interessi, dal momento che mi piacerebbe continuare la mia vita universitaria non dovendo rinunciare all’insindacabile privilegio di godere del fermento di Milano, così come suppongo vada contro gli interessi di alcuni professori universitari che si troverebbero in un posto periferico, perdendo la comodità (e lo status) di trascorrere la propria quotidianità nel centro di Roma o Milano.
Creare valore in altri luoghi, rivalutando territori a partire dall’istruzione e dai giovani, è qualcosa che reputo desiderabile. Per di più in Italia sarebbe anche molto più semplice trovare delle soluzioni che non siano la costruzione di enormi campus ex novo nelle zone periferiche come fanno negli USA, ma sarebbe possibile riqualificare città meno pop ma con un patrimonio culturale da offrire, con spazi abbandonati a invecchiare dalla tendenza migratoria verso i grandi centri. I ragazzi come me dovrebbero fare molti più sacrifici per andare al concerto di Anderson Paak al Fabrique e i miei professori dovrebbero farne altrettanti per andare a un concerto della Scala. Ma chissà, se ci fossero più studenti ad Ascoli Piceno, Dua Lipa potrebbe anche annunciare una data nelle Marche.