Educazione affettiva: una soluzione borghese
Perché la scuola non farà molto contro la violenza di genere
L’omicidio di Giulia Cecchetin ci ha lasciato tutti sconvolti e ha alimentato il fuoco delle battaglie femministe, già sul piede di guerra quando i giornali urlavano ingiustamente alla fuga d’amore. La vicenda ha creato scalpore, più dell’omicidio di Giulia Tramontano e del bambino che portava in grembo, forse perché sono coinvolti due giovani bravi ragazzi, forse perché il viso pulito di Giulia ci ricorda che la bontà è un bene che scarseggia e di cui si abusa spesso.
Tra l’ondata di rabbia e ribrezzo di questi giorni hanno avuto grande risonanza le invocazioni di chi chiedeva che si facesse qualcosa per istruire gli uomini, che ci si impegnasse a demolire il patriarcato non solo con gli slogan e con i fiori. Insomma, lo Stato è stato chiamato a farsi carico della redenzione di quel 50% di popolazione tra cui si celano i responsabili di tali delitti.
Tra le soluzioni più quotate dal femminismo social (che ormai ha sostituito quello da salotto) c’è l’educazione all’affettività da inserire nei curricula scolastici, con l’obiettivo di favorire lo sviluppo dell’intelligenza emotiva e quindi accrescere l’abilità di creare buone relazioni interpersonali. Un’idea che piace a molti, tanto che maggioranza e opposizione si sono già messe in moto per delineare una legge che la introduca al più presto.
C’è chi sostiene infelicemente che “tutti gli uomini pensano come pensa un femminicida”, quindi quale intervento migliore dell’educarli fin da piccoli? E chi può farlo meglio della scuola? Come dimenticare le emozionanti pagine del Libro Cuore in cui De Amicis racconta di una scuola virtuosa, che insegna i valori giusti come la solidarietà e la rinuncia in nome del bene comune? Spesso però la realtà è diversa da come viene dipinta.
Si potrebbe dire che chi crede nell’educazione all’affettività sia un inguaribile romantico. Forte dei suoi ideali di giustizia, correttezza e moralità, vede nella scuola il primo e più potente strumento di formazione dei giovani. L’istruzione come panacea di tutti i mali, capace di estirpare il seme della violenza che si annida indifferentemente in tutti gli uomini. Uomini che possono essere salvati, formati, cambiati semplicemente istruendoli, semplicemente spiegando loro che le donne vanno trattate in un certo modo perché siamo tutti uguali. Niente di più borghese, niente di più sbagliato.
L’educazione all’affettività è la soluzione dei borghesi che non hanno alcun contatto con la realtà e ignorano come funziona il mondo al di fuori dei castelli d’avorio dove una giusta lettura è sufficiente a educare. Nei contesti in cui vige la legge della violenza di genere la scuola non penetra. Nei luoghi in cui la scuola non ha autorevolezza e non è vista come una vera opportunità di educazione alla vita, l’educazione all’affettività non può nulla.
Ciò che viene raccontato a scuola non vale nulla in confronto alle lezioni della vita di tutti i giorni: padri, madri, fratelli e sorelle violenti, la legge del più forte a cui sottostare se si vuole sopravvivere nei quartieri di periferia e nei paesini sperduti della provincia. Non si può pensare di cancellare ciò che si è imparato con un colpo di spugna e il sapone delicato, vestendo il contadino da gentiluomo per poi accusarlo quando si comporta come è solito comportarsi.
Ciò che serve a tutti per estirpare la violenza, uomini e donne che siano, è lo spazio per lavorare su di sé e su ciò che abbiamo imparato, sugli schemi che abbiamo introiettato fin da piccoli e che plasmano la relazione col genere opposto.
Giulia si sentiva in colpa per aver lasciato Filippo e Filippo non riusciva a concepire la propria vita senza Giulia. La radice della vicenda si trova nella fragilità: la fragilità di chi non sa gestire il rifiuto, il distacco e l’abbandono, di chi si ritrova solo davanti all’imponenza delle proprie emozioni e di chi giudica le proprie azioni. Come può l’educazione all’affettività cambiare il vissuto delle persone, come può aiutare a gestire la disperazione, la rabbia, la paura, i sensi di colpa? L’intervento vero va fatto sulla salute mentale: per combattere la violenza ad ogni livello bisogna insegnare che c’è un altro modo di affrontare i problemi della vita e di reagire agli eventi avversi.
Il sapere didascalico non serve a nulla, gratta a malapena la superficie. Se si vuole distruggere il patriarcato dall’interno, bisogna entrare nelle menti di coloro che inconsciamente lo perpetrano, di chi fa così perché non conosce altro. Sdoganiamo la fragilità e offriamo supporto psicologico. Le ramanzine non servono a nulla.
L’autrice di oggi, Alice Pelucchi, ha una laurea triennale in Filosofia presso l’Università degli Studi di Milano. Correntemente studente presso il corso di laurea magistrale Applied Cognitive Neuroscience, sempre presso l’Università degli Studi di Milano, e frequenta un master in Neuropsicologia presso l'Universiteit Maastricht.
Scrive di questi e altri temi per la sua personal newsletter cervellotica.