Com’è che si dice? Ogni riferimento a persone o fatti realmente accaduti è frutto di casualità.
La seconda volta
Era già passato da quel castello qualche anno prima. Non erano le rosse e rigorose mura che cintavano la corte ad averlo affascinato, quanto un particolare che in quelle stanze era custodito da chissà quanti anni. Gli sembrava di percepire la solitudine che quella tela provava, nella routine di un luogo che negli ultimi anni aveva perduto la regalità che un tempo lo contraddistinse. Oggi molte persone transitano davanti a quella tela, con lo stomaco strabordante di carne d’anatra e vino rosso, spesso indaffarate in chiacchiere vacue. O almeno questa era la narrazione che lui aveva affibbiato a quell’opera pittorica dal primo giorno in cui la vide. Di quella tela non l’aveva colpito il valore artistico, né il valore storico. La firma non era altisonante, motivo per cui gli ignoranti avventori non si preoccupavano nemmeno di fingere interesse per l’opera.
Era proprio per tale parabola che aveva scoperto di avere un debole: in passato solo all’aristocrazia era concesso di godere quotidianamente di questa rarità, restituendo all’opera la riverenza che la buona arte, pur quando sommessa, si merita. Ora, invece, non vantando lo status di una firma grandiosa, quest’opera era condannata all’eterna irriconoscenza, in un castello da cui ormai passano solo più matrimoni, conferenze pseudo-culturali e persino pranzi aziendali. Era il racconto della malaugurata sorte di questa tela che gli aveva lasciato nell’animo la bramosia di tornare da lei, in quel castello, proprio come quando da ragazzino non aspettava altro che il giorno seguente per rivedere la ragazzina dal pensiero della quale le sue notti erano tormentate.
Nemmeno ci fu bisogno di controllare l’agenda per confermare la sua presenza quando venne invitato a presentare un libro presso il castello. E ora si trovava lì, davanti a quella tela sulla cui storia tanto la sua fantasia aveva ricamato. Ma, come ogni innamorato prima che sappia di essere ricambiato, aveva grande premura che quella bramosia non venisse scoperta. Quel giorno si limitò quindi a partecipare alla conferenza, passandole davanti come chiunque altro ci sarebbe passato davanti, senza lasciar trapelare alcun indizio che nella sua testa già appariva come una prova di colpevolezza. Non chiese nulla all’anziana proprietaria e le si rivolse soltanto per i convenevoli da cui in queste situazioni un personaggio come lui non può sottrarsi. Solo a conferenza finita, quando avrebbe lasciato i presenti nel pieno del buffet per farsi riportare verso casa dall’autista che lo attendeva in macchina, si concesse una breve, assorta, contemplazione.
Il contatto
Si premurò che il suo tono non suonasse troppo urgente al telefono. Nella sua carriera da politico aveva imparato a nascondere le emozioni dietro una voce sempre pacata con i suoi colleghi, seppur agli elettori preferiva mostrare una caricatura di sé stesso al limite del grottesco che gli ha sempre permesso di essere sempre candidato, in un modo o nell’altro, senza di fatto impegnarsi poi chissà quanto per la causa.
Il contatto rispose. “Carissimo”
“Ciao Roger, ti disturbo?”
“Assolutamente, dimmi tutto”
“Sono di ritorno da Pinerolo, ho presentato il nuovo libro di un tizio, Gianpiero Rigotta, roba sui Savoia… ad ogni modo, in questo castelletto ho notato una tela. Non so bene chi sia, comunque un caravaggesco. Potrebbe essere Manetti ma non posso esserne certo, non mi sono soffermato eccessivamente”
“Ti interessa?”
“Mi interesserebbe, sì. Vediamo che si può fare magari”.
“Mi informo e ti faccio sapere. Lasciami solo il nome del castello”
“Auriano, è il castello di Auriano”
“Perfetto, ti aggiorno presto, allora”
“Grazie Roger, buona giornata”
Il furto
Non è servito a molto insistere. L’anziana proprietaria del castello non vende le tele, se non assieme all’intera proprietà che per secoli le ha custodite. Roger si era presentato due volte nel giro di pochi giorni con l’intenzione acquistare il quadro – un Manetti del ‘600, come ipotizzato in primo luogo. Si arrivò a trattare per l’intero castello, tanto le pressioni del suo mandante si erano fatte pungenti. Ma l’accordo non si trovò.
“Ok Roger, non ti preoccupare. Ora avanti come al solito. Mi chiami tu, resto in attesa”.
Roger aveva capito le intenzioni da ben prima che questa chiamata gliele confermasse. È chiaro, avrebbe voluto con tutto il cuore poter dire di no. Tra qualche anno, con buona probabilità, ci sarebbe anche riuscito. Ma le sue aspirazioni di oggi l’avrebbero spinto a fare ciò che gli veniva richiesto, per quanto rischioso. L’etica non era più un problema, forse non lo era mai stato. Anche le prime volte, alla vigilia dei primi furti, il rimorso era in realtà soltanto il patetico travestimento della paura di essere scoperto, con tutte le - per lui - tragiche conseguenze dell’eventualità.
La notte stessa sarebbe entrato con l’aiuto di un suo collaboratore, munito di grimaldelli e molta esperienza con le serrature. Ma per entrare in quel modesto castello ai piedi delle alpi torinesi bastarono delle tronchesi che con un solo colpo secco fecero scivolare la catena del cancello a terra. Roger sapeva con precisione dove andare, il collaboratore lo seguiva con passo svelto. Per entrare nell’ala del castello dove il Manetti era esposto fu necessaria un’altra semplice forzatura della porta, la quale era provvista di una serratura che anche un principiante avrebbe saputo aprire in pochi secondi. Salirono le scale e a quel punto indossarono i faretti in testa, così da poter avere le mani libere durante l’operazione.
Roger sfoderò un taglierino con la calma di un professionista che si appresta a compiere il suo gesto tecnico, anche se non aveva chissà quali competenze, né come ladro, né tantomeno come restauratore. Iniziò dall’angolo in basso a sinistra, per poi andare verso l’angolo alto. Dovette salire sulle ginocchia del complice per raggiungere l’estremità più alta della cornice e completare l’incisione sulla tela che l’avrebbe liberata dalla pesante e rigida cornice.
Terminato il lavoro di ritaglio, Roger iniziò ad arrotolare la tela, mentre il collega srotolava una copia del quadro stampata su un foglio di plastica spessa da fissare al telaio con una spillatrice. Secondo loro avrebbe reso meno evidente, almeno per qualche tempo, il furto dell’opera. E mentre gli ultimi punti venivano battuti per completare la sostituzione, Roger bestemmiò: “S’è rotta!”. Il collega lo guardò senza dire una parola e nascose dietro la stampa sostitutiva il pezzo staccatosi dalla tela originale, a quanto pare troppo rigida per essere arrotolata brutalmente in tal modo dopo anni di distesa giacenza. Roger pensò che l’idea non fosse propriamente brillante, ma in quel momento la priorità era quella di uscire da quel castello senza farsi vedere da nessuno, per poi allontanarsi dal luogo del furto, meglio se per non tornarci mai più. E così fecero.
Il restauro
Il furto era andato bene, tutto come previsto. Con un qualche gancio avevano saputo presto che l’anziana donna aveva sporto denuncia, ma che di elementi per le indagini la polizia non ne avrebbe trovati. Infatti, erano già passati molti anni dal fatto e il caso era scemato, come succede a gran parte delle denunce per furto. Anche questa volta Roger aveva fatto un buon lavoro per lui, e infatti presto gli avrebbe potuto garantire la posizione per cui il fidato Roger aveva sudato tutti questi anni. C’era solo un passaggio da ultimare.
Roger conosceva bene il restauratore a cui si sarebbero rivolti per rendere l’opera rubata presentabile, nuovamente vendibile al pubblico, seppur da lui non fossero mai passate opere rubate in precedenza. Ma per il Manetti in questione, il capo aveva ritenuto necessario l’intervento del miglior restauratore sulla piazza, con tutte le complicazioni del caso.
Roger gli diede quindi appuntamento al casello di Mantova, dove si trovava lo storico atelier del restauratore. Arrivarono quasi insieme, entrambi puntuali rispetto all’orario concordato. Roger si presentò a bordo di una moto, seguito poi da un furgoncino. Riccardo, il restauratore, arrivò anch’esso a bordo del suo furgoncino bianco. Lo scambio della tela fu veloce, Roger disse di avere fretta e tagliò in maniera piuttosto scortese sui convenevoli, tanto che Riccardo rimase piuttosto interdetto, se non proprio infastidito dal comportamento di Roger. Ad ogni modo Riccardo sapeva bene chi fosse il mandante dietro a quel restauro e ingoiò il rospo.
Poche ore dopo, già tornato nel suo atelier assieme alla tela, Riccardo ricevette la chiamata.
“Carissimo, ho saputo che hai ricevuto il Manetti! Mi fa molto piacere sapere che quella magnifica tela passerà sotto le tue mani”
“L’ho ricevuta, sì. L’ho anche già ammirata, devo ammettere”
“Bellissima, non è vero? Quando l’ho vista lassù, nell’abbandono di quella soffitta, me ne sono innamorato subito”
“Da dov’è che arriva mi chiedevo appunto?”
“Una circostanza fortunatissima, guarda. L’ho ritrovata recentemente, visitando una proprietà che mia madre comprò tanti anni fa. Sono andato per un sopralluogo prima di iniziare i lavori di ristrutturazione e ho trovato questo Manetti. Arrotolato in un angolo, impolverato e addirittura tristemente mutilato, come immagino avrai potuto notare. A quel punto mi sei venuto in mente tu e non ho potuto far altro che rivolgermi a te per sapere che ne pensassi di un bel restauro prima di esporlo”
“Hai fatto benissimo, è un onore per me poter lavorare su queste rarità. Anzi, ti dirò, sono impaziente di mettermi al lavoro. Nel frattempo fai che mandarmi una copia dell’attestato di proprietà e io nel giro di un mesetto ti faccio vedere cosa ne viene fuori”
“A posto Riccardo, i tuoi recapiti li ho. Trattamelo bene come so che sai fare e spero di sentirti presto”
L’esposizione
L’attestato di proprietà non arrivò mai. Nemmeno il pagamento concordato telefonicamente con Roger arrivò mai. Ma Riccardo il lavoro lo aveva portato a termine, fedele alla sua arte restauratrice e incantato da una possibilità così unica per la sua carriera. Non capita tutti i giorni un Manetti del ‘600, nemmeno a chi, come lui, rappresenta un’istituzione del settore. Ad ogni modo Roger, ai tempi, era passato a ritirare la tela restaurata poche ore dopo la sua segnalazione di lavoro compiuto. Anche in quella sede aveva promesso che i soldi sarebbero arrivati e che lui, dell’attestato, non ne sapeva nulla. Impossibile per Riccardo parlare con il proprietario: le rare volte che qualcuno rispondeva al numero, era la segretaria, la quale con voce cordialissima diceva che il boss era impegnato in quel momento, e che l’avrebbe richiamato più tardi. Ma non richiamava mai.
Riccardo aveva ormai capito che i suoi iniziali sospetti, troppo deboli per farlo desistere dal mettere comunque il suo prezioso tocco, erano fondati. Quella tela nascondeva dello sporco, doveva essere in una qualche maniera coinvolta in qualcosa di illecito. Nelle stesse pennellate c’era qualcosa di incongruo. Come quella fiaccola che illumina la scena dallo sfondo, del tutto fuori luogo per un’opera dei caravaggeschi i quali han fatto dell’ombra e della luce di taglio la loro elegante cifra stilistica.
Ma dopotutto non era più preoccupato. Anche quando alcuni giornalisti ficcanasarono, in occasione dell’esposizione del Manetti, in quello che a tutti gli effetti era ormai un conclamato caso di furto, lui sapeva di essere intoccabile. Qual era il suo coinvolgimento nell’affare losco? Non aveva ricevuto soldi da nessuno e gli stessi committenti erano stati più che cauti – per ovvie ragioni – nel lasciare traccia delle loro comunicazioni, le quali ormai risalivano a diversi anni prima. Ma i giornalisti arrivarono anche a lui. Chissà chi si era lasciato sfuggire il passaggio che lo vedeva coinvolto nel caso Manetti. Ad ogni modo, forte della sua posizione e fiducioso nel silenzio delle persone coinvolte, anche si fosse arrivati davanti a una corte, negò tutto e, con gentilezza, si liberò in fretta delle telecamere.
L’offerta
Passarono ancora tre anni da quell’inchiesta e in tribunale il caso nemmeno ci arrivò. Riccardo non sapeva come fosse potuto succedere, ma sapeva bene che, se il committente avesse avuto interesse nel sedare il polverone, ci sarebbe riuscito. Era chiaro che, da parte del committente, l’interesse ci fosse. Un giorno però il telefono squillò, interrompendo la musica che dal vecchio stereo del suo laboratorio intratteneva l’ambiente.
“Pronto, con chi parlo?”
“Ciao Riccardo, sono io”, la voce era inconfondibile, anche dopo i dieci anni abbondanti trascorsi.
Riccardo rimase in silenzio.
“Come stai Riccardo? Mi fa molto piacere sentirti. So che stai continuando con il tuo eccellente lavoro, mi fa molto piacere”
“Grazie, grazie. A cosa devo la chiamata?”, rispose pacatamente Riccardo, cercando di nascondere al meglio delle sue possibilità l’angoscia che tutt’a un tratto l’aveva colto.
“Guarda Riccardo, ho ottime notizie per te. Immagino tu sappia che tra poco si terranno le elezioni e, a giudicare dal sentimento, sembra proprio che a Roma i miei colleghi ci rimarranno per almeno altri cinque anni. So che ormai anche tu stai iniziando ad avere una certa età e il lavoro, per quanto possa piacere, tende a diventare sempre meno sopportabile un po’ per tutti. Proprio per questo, mentre oggi si parlava del nuovo ministero alla cultura, mi sei venuto in mente tu. Chi, se non tu! Volevo appunto proporti di venire qua, a Roma, in quanto sottosegretario al ministero, dato che il vertice del dicastero lo presiederò io stesso…”
Riccardo attaccò il telefono nel mezzo del discorso. Si guardò intorno, vide quella stanza in cui per tutta la vita aveva vissuto, più che lavorato, in cui aveva amato, più che studiato. Si alzò dallo sgabello e andò a pisciare. Poi, con molta calma, aprì la finestra e appoggiò il telefono sullo stretto davanzale esterno. Poi richiuse la finestra. Andò verso il telefono fisso, lì da chissà quanti anni e ormai piuttosto silente. Lo staccò dalla presa. A quel punto tornò a sedersi sul suo sgabello, davanti a una piccola tela barocca dell’800 che aveva ricevuto in dono da un amico qualche giorno prima e della quale stava facendo una copia. Un esercizio come i tanti che lo avevano quotidianamente accompagnato durante i suoi quasi 60 anni di lavoro. Alzò il mento così che il fondo degli occhiali gli permettesse di mettere a fuoco il punto giusto. Quindi, ricominciò a dipingere.