Entusiasta di iniziare un nuovo anno, disinvolto nel contesto e consapevole di me stesso. Lascio tutta la pigrizia di agosto in questo languidissimo capitolo. Vi auguro un fiorente settembre <333
Ultimamente, chiacchierando del più e del meno con alcune nuove conoscenze, mi è capitato di riesumare una simpatica teoria elaborata dal me maturando, la quale diventò addirittura materiale da tesina per la mia maturità al Liceo Classico Isaac Newton di Chivasso. Tale teoria, approssimativa e ingenuamente arrogante, mi ha portato a guadagnare un misero e meritato 64. Nonostante questo, ogni tanto mi capita ancora di condividere questa teoria, se così vogliamo chiamarla, e non nego di farlo con un certo orgoglio. Mi rendo conto, oggi come probabilmente anche allora, che per un lavoro accademico questo delirio non fosse ortodosso. Studiando filosofia in triennale ho imparato cose molto importanti ma niente di quelle che volevano insegnarmi. Cercando di usare parole mie, quello che forse più mi ha insegnato lo studio della filosofia è l’approccio da utilizzare quando si ha intenzione di guardare criticamente ai fenomeni, ovvero a tutte quelle cose, persone ed eventi che popolano questo mondo. A stento saprei nominare un qualsiasi filosofo medievale, ma stare a contatto con chi studia in questo ambito e aver dovuto almeno tentare di cimentarmici, mi ha fatto realizzare come qualsiasi fenomeno sia complesso e sfaccettato, come le prospettive sotto cui considerare le cose siano pressoché infinite e come la filosofia stia nel grande sforzo di trattare questa complessità con la perizia e la serietà necessaria. So che a molti può sembrare contrario rispetto alle credenze che si hanno attorno alla filosofia ma, ricevendone un’infarinatura, a me è sembrato di capire che questa disciplina, nella maggior parte delle sue forme, insegua solidamente la scientificità. Infatti essa cerca di trattare nella maniera più sistematica possibile quegli ambiti di studio che non sono nemmeno lontanamente vicini all’essere considerabili scienze dure, come il giusto o il bello. Per capire meglio questo discorso si può prendere in esame il caso della mente, fino a pochi secoli fa di esclusiva pertinenza filosofica: oggi, pur non essendo ancora completamente smascherata, siamo arrivati ad avere conoscenze più solide a riguardo grazie alle tecnologie che ci permettono di studiarla. Succede quindi che la filosofia non è più costretta a fondare sistemi su basi non ancora dimostrabili e diventa, almeno parzialmente, quella che oggi è la neurofisiologia.
Tutto questo largo preambolo al fine di certificare come il mio lavoro del tempo fosse tutto meno che filosofico. Il motivo per cui però sono ancora qua a tirare fuori questo scheletrino è l’innocente poeticità di una piccola narrazione che ritengo abbia ancora ragione di essere tramandata qui nell’undernet. A questo punto, direte giustamente voi, potrebbe anche essere giunto il momento di srotolare questa hypatissima teoria nelle poche righe che restano: e dunque possiamo dire che ai tempi avevo notato come l’essere umano fosse una delle poche specie al mondo in grado di astenersi, almeno temporaneamente, dalla dittatura dell’istinto di sopravvivenza: questo attraverso alcuni comportamenti che avevo immagazzinato sotto le categorie di arte e dipendenza. Arte, per includere tutto ciò che facciamo e di cui godiamo senza che sia qualcosa di strettamente utile alla sopravvivenza, come appunto le forme d’arte, compresa quella ludica, e tutte le altre forme di piacere disinteressato. Dipendenza, invece, come tutto ciò che è addirittura controproducente in termini di sopravvivenza, e quindi quei comportamenti che mettiamo in atto per farci volontariamente del male. Tutto questo si contrappone a quello che è invece la vita dedicata alla sopravvivenza e alla perpetuazione della specie, aspetto che ci accomuna al resto del regno degli esseri viventi. Ci sono alcuni rari esempi di animali “rotti” similmente a noi, come il caso dei panda, i quali si abbandonano al gioco e rinunciano alla riproduzione o quello degli elefanti che, come altri animali, apprezzano le sostanze stupefacenti come l’alcool derivato dalla fermentazione di alcuni frutti. Nessuno però può vantarne tanti quanti l’essere umano. Ai tempi avevo etichettato sotto la categoria di squallore tutto ciò che fosse manifestazione dell’istinto di sopravvivenza, il che rende l’idea della mentalità (per fortuna parzialmente superata) dell’adolescente dell’epoca. Ancora oggi però mi ritrovo nell’idea che l’uomo sia un essere speciale o quantomeno peculiare. È diventato difficile crederlo ancora valorialmente superiore agli altri esseri animati alla luce del grosso pasticcio che ha combinato al suo stesso pianeta, ma ciò non basta a farmi smettere di credere nella magia della nostra specie: una situazione sfuggita di mano, un errore di calcolo nella simulazione di questo universo, un bug del sistema o forse una ribellione da una madre tanto generosa quanto severa. Ancora oggi penso che abbia senso coltivare la nostra unicità, magari per la via più sana del piacere o, perché no, nell’oscuro abisso delle dipendenze.